LE PIETRE DI FEDERICO II

di Luigi Murolo

 

Tutto ha inizio e fine in dicembre. Il 26 del 1194, la nascita; il 13 del 1250, la morte. Nel primo caso, in una tenda regale posta nell’antico Foro romano di una città nelle odierne Marche (significativo il disegno conservato nel manoscritto chigiano della Cronica di Giovanni Villani). Nel secondo caso, in un Palatium oggi non più esistente, nel sito di un allora importante centro strategico della Capitanata, anch’esso scomparso. Un «niente» visibile in superficie che, nel riemergere dal sottostante, modifica lo Sterparone (denominazione antica della contrada rurale in questione) in cui si era caratterizzato tornando alla natura, configurando la forma di «ex-sistere», di «star fuori» da ciò che, per centinaia di anni, era diventato un non-più.

Che dire! Di resti archeologici come quelli qui esibiti, il suolo italiano è ricchissimo. Quasi a suggellare una sorta di omologazione, di fatto solo apparente. Anzi, testimonianze di una radicalità di differenze, ognuna di esse segna l’unicità di un già-stato. Sicché, il modo del venire-alla-luce-del-singolo-già-stato (lo scavo), nel suo aprirsi allo scoperto, rende temporale – e, di conseguenza, storico – ciò che in precedenza era stato chiuso nel nascondimento della terra. Le relazionalità che si stabiliscono con l’ambiente e con l’osservatore vivono nell’esser-ci l’esistenza della «cosa». Di qui il fascino del genius loci. Di qui il passato che, diventando presente, declina il senso di possibilità in esso implicito.

Ernst H. Kantorowicz, uno dei grandi storici delle istituzioni medievali del Novecento, nella sua straordinaria ricerca sui due corpi del Re (tr. it. Torino, Einaudi, 1989), ha indagato i due aspetti che convivevano nella figura sovrana: da un lato, la persona ficta (cioè, persona fittizia; un’entità diversa dagli uomini, che si manifesta attraverso l’agire di uomini che la rappresentano); dall’altro, la dignitas – immateriale – che non muore mai – e che, con la sua auctoritas, conferisce l’effettiva legittimazione del potere.

Ora, da questo punto di vista, occorre ricordare che a Castel Fiorentino, il sito medievale abbandonato di cui abbiamo finora parlato (localizzato nell’attuale territorio di Torremaggiore), moriva Federico II, lo stupor mundi, dopo l’infezione contratta a Termoli nel giugno del 1250. Quasi non bastasse, con la scomparsa del Rex Romanorum, sarebbe venuto a scomparire in tempi successivi lo stesso luogo che aveva ospitato, fino all’ora del trapasso, l’agonizzante persona ficta. Con l’aggiunta che il corpo del Sovrano, una volta imbalsamato, sarebbe stato definitivamente traslato e allocato (25 gennaio 1251) in un’arca di porfido rosso, nella navata meridionale della Cattedrale di Palermo vicino alle spoglie del Rex Siciliae Ruggero II, suo nonno.

La singolarità e la suggestione del tema si trova proprio in questo: che la fine di Federico avvia la fine della stessa città in cui spira. E se ciò, per un verso, aveva alimentato la leggenda della terribile profezia vaticinata da Michele Scoto secondo cui lo Stupor mundi sarebbe morto in un paese il cui nome, al suo interno, conservava il termine «fiore» (motivo che, pare, aver tenuto il Monarca sempre lontano da Fiorenza); per l’altro, nessuno aveva previsto il contrario: e cioè il fatto che la morte di Federico avrebbe trascinato con sé la morte della città. Nessuno si era spinto fino a tanto. Nemmeno quel Michele Scoto di cui Dante avrebbe detto meraviglie: «Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, / Michele Scotto fu, che veramente / de le magiche frode seppe ‘l gioco» (Inf., XX, vv. 115-117), e che lo stesso Boccaccio lo avrebbe ricordato come «gran maestro in nigromantia» (Decameron, VIII, 3).

Una cosa però è certa. Laddove sapienti, astrologhi, negromanti non giungevano a formulazioni predittive di tale natura, gli stessi avrebbero di certo potuto trovare indicazioni del medesimo tipo nella cultura popolare del tempo. Ancora nel XIX secolo sopravvivevano credenze che presupponevano il realizzarsi di esiti così nefasti. Ma sempre a condizioni date. Ad esempio, le ricerche etnologiche di Gennaro Finamore registrano testimonianze di questo genere. Raccolte perfino a Vasto. Nelle Tradizioni popolari abruzzesi (Torino-Palermo, Clausen, 1894, p.83), proprio per Il Vasto, Finamore scrive: «Se l’orologio batte quando la campana annunzia un’agonia, quande sóne la scìuta d’alme, morranno presto sette capi di casa». Va da sé che, in un contesto di tal fatta, per i negromanti del XIII secolo i «sette capi di casa» potevano essere tranquillamente rapportabili alla città e ai suoi abitanti.

Ora, di là dalle infinite divagazioni narrative sovrapponibili alla realtà storica, ciò che conta in questa sede è prospettare quali e quante sollecitazioni possa produrre una visita solitaria in un ambiente di scavi archeologici come l’antica collina di Sterparone, ritornata oggi Castel Fiorentino. La possibilità di un fluire di pensieri che sembra poter rinviare a quel passo di Heidegger che, nella sua abissale profondità, recita testualmente: «Il rapporto dell’uomo ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uomo e spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1985, p.105). E sempre per Heidegger «l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra» (op. cit., p.98). Magari no. Nulla di tutto questo! Il fascino, però, sì! Il fascino che si vive in questo genius loci quando le cognizioni di cui ognuno dispone sul Puer Apuliae, si affollano nella mente trasformando quel sito, agli occhi di ogni visitatore, in uno scrigno di «grande bellezza» (magari ascoltando dal web come accompagnamento musicale l’Under der linden di cui è autore quel Walther von der Vogelweide, massimo cantore del potere imperiale).

Un’ultima considerazione. Quando parlo di questi argomenti non posso non pensare all’epistula datata Anagni, 18 ottobre 1255 con cui papa Alessandro IV ricorda agli abitanti di Pennaluce la fondazione della città voluta dal fu Federico II (il documento è trasmesso dal Registro 24, c.102v, n.699 dell’Archivio Segreto Vaticano, pubblicato nel 1902. Lo stesso è stato utilizzato da Davide Aquilano per gli scavi condotti, e poi ricoperti, nella piana di Punta Penna nel 1993, e dal 1494 divenuta parte integrante del territorio del Vasto. Il testo è stato ripreso, controllato e interamente ripubblicato dallo stesso studioso in Insediamenti, popolazione e commercio nel contesto costiero e molisano [sec. XI-XIV]. Il caso di Pennaluce, in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge. Tome 109 – 1997 – 1», pp.125-126). Mi chiedo: riesce qualcuno a pensare all’esistenza nascosta nel sottosuolo di una città federiciana? Che nell’area compresa tra la Cappella e la Torre Cavallara, tra il grande prato e le case popolari i resti custoditi dalla madre Terra raccontano l’abitare umano pensato e realizzato dalla volontà costruttrice dello Stupor mundi? Di questo non so dire. Mi piacerebbe però che una piccola stele lapidea, posta sulla sua superficie, recasse un’iscrizione del seguente tenore:

 

QUI

NEL NASCONDIMENTO DELLA TERRA
LE PIETRE DI PENNALUCE

VOLUTE DALLA MANO SOVRANA DI
FEDERICO II DI SVEVIA

ATTENDONO L’APERTO

 

Già! Di là dai deserti incontrati lungo questo percorso la Terra respira ancora, lasciando emergere dal suo humus una flebile voce che può essere intesa solo da chi ha scelto di porsi in posizione di ascolto per accogliere in sé la voce senza tempo delle «cose» insieme con la meraviglia che si prova nella contemplazione delle stesse. Qui c’è solo la parola struggente del Nietzsche di Ecce homo che può restituire in qualche modo il senso della presenza che si guarda, ma non si vede. Ecco perché di fronte all’opera scomparsa di Federico II mi sento di poter dire:

 

La mia anima, una corda

toccata dall’invisibile,

a sé cantava in segreto

una canzone […],

tremando di beatitudine multicolore.

-L’ha qualcuno mai udita?…

LE PIETRE DI FEDERICO II

di Luigi Murolo

 

Tutto ha inizio e fine in dicembre. Il 26 del 1194, la nascita; il 13 del 1250, la morte. Nel primo caso, in una tenda regale posta nell’antico Foro romano di una città nelle odierne Marche (significativo il disegno conservato nel manoscritto chigiano della Cronica di Giovanni Villani). Nel secondo caso, in un Palatium oggi non più esistente, nel sito di un allora importante centro strategico della Capitanata, anch’esso scomparso. Un «niente» visibile in superficie che, nel riemergere dal sottostante, modifica lo Sterparone (denominazione antica della contrada rurale in questione) in cui si era caratterizzato tornando alla natura, configurando la forma di «ex-sistere», di «star fuori» da ciò che, per centinaia di anni, era diventato un non-più.

Che dire! Di resti archeologici come quelli qui esibiti, il suolo italiano è ricchissimo. Quasi a suggellare una sorta di omologazione, di fatto solo apparente. Anzi, testimonianze di una radicalità di differenze, ognuna di esse segna l’unicità di un già-stato. Sicché, il modo del venire-alla-luce-del-singolo-già-stato (lo scavo), nel suo aprirsi allo scoperto, rende temporale – e, di conseguenza, storico – ciò che in precedenza era stato chiuso nel nascondimento della terra. Le relazionalità che si stabiliscono con l’ambiente e con l’osservatore vivono nell’esser-ci l’esistenza della «cosa». Di qui il fascino del genius loci. Di qui il passato che, diventando presente, declina il senso di possibilità in esso implicito.

Ernst H. Kantorowicz, uno dei grandi storici delle istituzioni medievali del Novecento, nella sua straordinaria ricerca sui due corpi del Re (tr. it. Torino, Einaudi, 1989), ha indagato i due aspetti che convivevano nella figura sovrana: da un lato, la persona ficta (cioè, persona fittizia; un’entità diversa dagli uomini, che si manifesta attraverso l’agire di uomini che la rappresentano); dall’altro, la dignitas – immateriale – che non muore mai – e che, con la sua auctoritas, conferisce l’effettiva legittimazione del potere.

Ora, da questo punto di vista, occorre ricordare che a Castel Fiorentino, il sito medievale abbandonato di cui abbiamo finora parlato (localizzato nell’attuale territorio di Torremaggiore), moriva Federico II, lo stupor mundi, dopo l’infezione contratta a Termoli nel giugno del 1250. Quasi non bastasse, con la scomparsa del Rex Romanorum, sarebbe venuto a scomparire in tempi successivi lo stesso luogo che aveva ospitato, fino all’ora del trapasso, l’agonizzante persona ficta. Con l’aggiunta che il corpo del Sovrano, una volta imbalsamato, sarebbe stato definitivamente traslato e allocato (25 gennaio 1251) in un’arca di porfido rosso, nella navata meridionale della Cattedrale di Palermo vicino alle spoglie del Rex Siciliae Ruggero II, suo nonno.

La singolarità e la suggestione del tema si trova proprio in questo: che la fine di Federico avvia la fine della stessa città in cui spira. E se ciò, per un verso, aveva alimentato la leggenda della terribile profezia vaticinata da Michele Scoto secondo cui lo Stupor mundi sarebbe morto in un paese il cui nome, al suo interno, conservava il termine «fiore» (motivo che, pare, aver tenuto il Monarca sempre lontano da Fiorenza); per l’altro, nessuno aveva previsto il contrario: e cioè il fatto che la morte di Federico avrebbe trascinato con sé la morte della città. Nessuno si era spinto fino a tanto. Nemmeno quel Michele Scoto di cui Dante avrebbe detto meraviglie: «Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, / Michele Scotto fu, che veramente / de le magiche frode seppe ‘l gioco» (Inf., XX, vv. 115-117), e che lo stesso Boccaccio lo avrebbe ricordato come «gran maestro in nigromantia» (Decameron, VIII, 3).

Una cosa però è certa. Laddove sapienti, astrologhi, negromanti non giungevano a formulazioni predittive di tale natura, gli stessi avrebbero di certo potuto trovare indicazioni del medesimo tipo nella cultura popolare del tempo. Ancora nel XIX secolo sopravvivevano credenze che presupponevano il realizzarsi di esiti così nefasti. Ma sempre a condizioni date. Ad esempio, le ricerche etnologiche di Gennaro Finamore registrano testimonianze di questo genere. Raccolte perfino a Vasto. Nelle Tradizioni popolari abruzzesi (Torino-Palermo, Clausen, 1894, p.83), proprio per Il Vasto, Finamore scrive: «Se l’orologio batte quando la campana annunzia un’agonia, quande sóne la scìuta d’alme, morranno presto sette capi di casa». Va da sé che, in un contesto di tal fatta, per i negromanti del XIII secolo i «sette capi di casa» potevano essere tranquillamente rapportabili alla città e ai suoi abitanti.

Ora, di là dalle infinite divagazioni narrative sovrapponibili alla realtà storica, ciò che conta in questa sede è prospettare quali e quante sollecitazioni possa produrre una visita solitaria in un ambiente di scavi archeologici come l’antica collina di Sterparone, ritornata oggi Castel Fiorentino. La possibilità di un fluire di pensieri che sembra poter rinviare a quel passo di Heidegger che, nella sua abissale profondità, recita testualmente: «Il rapporto dell’uomo ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uomo e spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1985, p.105). E sempre per Heidegger «l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra» (op. cit., p.98). Magari no. Nulla di tutto questo! Il fascino, però, sì! Il fascino che si vive in questo genius loci quando le cognizioni di cui ognuno dispone sul Puer Apuliae, si affollano nella mente trasformando quel sito, agli occhi di ogni visitatore, in uno scrigno di «grande bellezza» (magari ascoltando dal web come accompagnamento musicale l’Under der linden di cui è autore quel Walther von der Vogelweide, massimo cantore del potere imperiale).

Un’ultima considerazione. Quando parlo di questi argomenti non posso non pensare all’epistula datata Anagni, 18 ottobre 1255 con cui papa Alessandro IV ricorda agli abitanti di Pennaluce la fondazione della città voluta dal fu Federico II (il documento è trasmesso dal Registro 24, c.102v, n.699 dell’Archivio Segreto Vaticano, pubblicato nel 1902. Lo stesso è stato utilizzato da Davide Aquilano per gli scavi condotti, e poi ricoperti, nella piana di Punta Penna nel 1993, e dal 1494 divenuta parte integrante del territorio del Vasto. Il testo è stato ripreso, controllato e interamente ripubblicato dallo stesso studioso in Insediamenti, popolazione e commercio nel contesto costiero e molisano [sec. XI-XIV]. Il caso di Pennaluce, in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge. Tome 109 – 1997 – 1», pp.125-126). Mi chiedo: riesce qualcuno a pensare all’esistenza nascosta nel sottosuolo di una città federiciana? Che nell’area compresa tra la Cappella e la Torre Cavallara, tra il grande prato e le case popolari i resti custoditi dalla madre Terra raccontano l’abitare umano pensato e realizzato dalla volontà costruttrice dello Stupor mundi? Di questo non so dire. Mi piacerebbe però che una piccola stele lapidea, posta sulla sua superficie, recasse un’iscrizione del seguente tenore:

 

QUI

NEL NASCONDIMENTO DELLA TERRA
LE PIETRE DI PENNALUCE

VOLUTE DALLA MANO SOVRANA DI
FEDERICO II DI SVEVIA

ATTENDONO L’APERTO

 

Già! Di là dai deserti incontrati lungo questo percorso la Terra respira ancora, lasciando emergere dal suo humus una flebile voce che può essere intesa solo da chi ha scelto di porsi in posizione di ascolto per accogliere in sé la voce senza tempo delle «cose» insieme con la meraviglia che si prova nella contemplazione delle stesse. Qui c’è solo la parola struggente del Nietzsche di Ecce homo che può restituire in qualche modo il senso della presenza che si guarda, ma non si vede. Ecco perché di fronte all’opera scomparsa di Federico II mi sento di poter dire:

 

La mia anima, una corda

toccata dall’invisibile,

a sé cantava in segreto

una canzone […],

tremando di beatitudine multicolore.

-L’ha qualcuno mai udita?…

IL PRESEPE SETTECENTESCO DI ANTONIO VASSETTA

di Luigi Murolo

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Antonio Vassetta (1727-?), Presepe. Vasto, Pinacoteca Comunale

L’anno è il 1936. Una singolare donazione afferisce nel Museo Comunale del Vasto. È un presepe. Un presepe “portatile” realizzato in una teca di legno di noce. Intarsiata, chiusa da vetri e con la costruzione interna in cartapesta. A dirla in breve, una sorta di campana (in qualche modo riconducibile a quella dei santi trasportata di casa in casa) che, su tre lati, consente la visualizzazione di una Natività rimasta di fatto ignorata. Fin qui nulla di particolare o speciale. Al contrario, la cosa che lascia stupefatti – o ancor meglio, sconcertati – è la didascalia che accompagna l’esposizione dell’opera in miniatura. Che cosa dice la breve legenda? Presto detto. Che si tratta di un lavoro di Giuseppe Palizzi pervenuto in città grazie alla donazione del 1898 voluta dal fratello Filippo di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita. Ora, io non so da dove l’estensore della noticina (probabilmente risalente al 1986) abbia tratto tale notizia. Ma stando alla ricca documentazione archivistica conservata a Vasto sappiamo che Filippo Palizzi dona alla città di nascita 67 tele (e ciò sulla base dell’inventario compilato dall’ing. Luigi Laccetti, delegato del Consiglio Comunale di Vasto presso la sua abitazione per il ritiro dei quadri). Nessun altro oggetto artistico. Insomma, sappiamo che risultano essere sessantaquattro dipinti di Filippo, uno di Francescopaolo, due di Giuseppe (segnatamente Scena romantica e Foresta di Fontainebleau). Come si può comprendere dalla lettura della lista, nessun riferimento a un presepe. Ma ciò che conta è l’assenza dello stesso nell’altro elenco generale dei pezzi conservati nel Museo civico compilato nel 1933. Da questo punto di vista, la fervida immaginazione dello schedatore, pur di riempire un modulo, sembra esser volata di fiore in fiore per regalare all’ufficio da cui dipendeva un campionario di simpatiche e dilettevoli trovate.

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Luigi Anelli: Atto di donazione del Presepe di Antonio Vassetta al Museo Archeologico. Vasto, Archivio Storico Comunale

Ma fatta questa precisazione, la domanda che si pone è la seguente: una volta escluso Giuseppe Palizzi, che cosa resta? Senza ulteriori giri di parole, nulla di quanto didascalizzato. Al contrario, ci si trova di fronte a una rappresentazione di fatto sconosciuta che sembra rinviare a una tradizione locale – per così dire, «portatile», della Natala Sandǝ –, anteriore a quella prodotta a metà Ottocento dall’irruzione sulla scena dei cosiddetti pupattelli di Munzù (soprannome di Domenico Miscione e dei fratelli Giuseppe e Michele) che avrebbero indirizzato la sensibilità dei fideles verso la cultura domestica e individualizzata del «presepe popolare napoletano». Vale a dire, un universo iconologico sociologicamente e folkloricamente del tutto estraneo, come l’altro, al mondo gioioso del cosiddetto «presepe colto» di impianto gesuitico ma sempre di tradizione partenopea, dove l’annuncio dell’Agnus Dei è ipotizzato in un ambiente rustico e la Sua nascita sulle rovine di un tempio romano. Stando così le cose, un’altra domanda va posta: chi risulta essere il donatore del pezzo in questione? Un documento datato 26 maggio 1936 (che qui viene pubblicato) svela l’arcano: si tratta essere di Luigi Anelli, direttore del Museo Archeologico Comunale del Vasto che, ad futuram rei memoriam, precisa il nome dell’autore: il falegname vastese Antonio Vassetta, titolare dell’omonima bottega artigiana, vissuto nel XVIII secolo. Sulla base di questa indicazione, ho ritrovato nel Catasto Onciario (1742) – conservato presso l’Archivio Storico Comunale di Vasto – lo stato di famiglia di questo ebanista, nato nel 1727 da Giuseppe Nicola (anche lui ebanista) e da Cintia Petrilli. Una famiglia di falegnami, insomma, che consegna una lettura teologico-figurale tutta centrata sul paesaggio con la grotta posta verso il basso di un unico monte (o “scoglio”) – dove annuncio e natività si fondono in un solo ambiente – e non su di un piano circondato da monti (interpretazione probabilmente suggerita dal cugino sacerdote di Antonio, Giovanni Vassetta, o dall’altro, Gioacchino Vassetta, clerico regolare della Madre di Dio, divenuto in seguito vescovo di Castellaneta). Nei fatti, l’opera mette in campo una sorta di descensus ad inferos che, rileggendo scenograficamente quel passo del Credo apostolico in cui è scritto «descendit ad inferos, / tertia die resurrexit a mortuis», vede il Natale come anticipazione figurale di morte e resurrezione del Nazareno sul versante spirituale, e non come vittoria sul paganesimo romano. E qui, per cogliere meglio il senso metaforico della trasposizione paesaggistica in prospettiva tomistica, vale la pena seguire gli otto articoli della pars III, quaestio 52, della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino (interamente tradotta in italiano e disponibile sul sito web www.gliscritti.it/dchiesa/summat/summat.htm.) in cui viene affrontato il tema della discesa e risalita del Cristo dagli inferi.

La vera particolarità che emerge dall’impianto presepiale di Vassetta è la netta separazione tra prossimità e lontananza dalla grotta: nel primo caso popolata da pastori, nel secondo da animali. Qui sembra emergere l’influenza di un racconto locale tramandato dal poeta Gabriele Rossetti – probabilmente ascoltato da bambino dalla voce di mamma Francesca Pietrocola, contemporanea del Vassetta – e trasformato dall’exsul immeritus in una delicata favola natalizia. Così, diversamente dal riuso gesuitico del Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo nel quale «si avverò quanto era stato detto dal profeta: i lupi pascoleranno con gli agnelli. Il leone e il bue mangeranno insieme la paglia. C’erano infatti due buoi e un carro nel quale portavano le cose necessarie e lungo il cammino li guidavano i leoni», gli stessi animali della favola bella (il più umile di tutti: un vermiciattolo) troveranno il giusto premio in un tempo futuro con l’abbandono del proprio corpo terrestre metamorfizzato in una lucciola che, con la sua luce intermittente, si libra verso l’alto:

 

« Era la notte di Natale e il bambino Gesù, nato da poco, non aveva abiti, ma tanto, tanto freddo. Vi erano nella stalla un bue e un asinello che lo riscaldavano con il fiato. Una gallina da sotto una trave della stalla si scrollò di dosso tutte le penne in modo da formare un piccolo giaciglio; una pecora diede la sua lana per coprire il corpicino di Gesù, mentre un ragno filò una piccola cuffietta di tela intorno al suo capo.

Solo un piccolo vermiciattolo non sapeva cosa donare a Gesù e, vedendo fra la paglia della stalla un fiore appassito, lo raccolse e lo pose nelle mani del bambino che lo benedisse. Giunse il mese di maggio e il vermiciattolo sentì qualcosa sul suo dorso e vide che gli spuntavano le ali e una luce si spegneva e accendeva ad intervalli sulla sua coda: era diventato una lucciola! Uscì dalla stalla e vide tante altre lucciole che volavano per la campagna. Gesù bambino aveva così voluto premiare il buon vermiciattolo, donandogli un po’ della luce della notte di Natale. Così ogni anno, a Maggio, si rinnova il miracolo e tante lucciole illuminano la notte, come dice una vecchia filastrocca ripetuta dai bambini abruzzesi, “pe’ mare e pe’ terre, e pe’ tutte le casarelle” ».

 

La narrazione rossettiana è tutta qui. Di straordinaria importanza per comprendere la specificità del «presepe popolare»: quello vastese dei Munzù, per intenderci, non quello «colto» che ha il suo archetipo nella tradizione napoletana di S. Gregorio Armeno. Diciamola tutta. La regula popolare vuole che il presepe si dispieghi dal 2 novembre, giorno della «śśįụta d’ålmǝ da lu Prįǰåtǫriĵǝ» al 6 gennaio, giorno del loro rientro. Già, le anime del Purgatorio escono dalla terra per rientrarvi in quel periodo pre- e post natalizio compreso tra il pieno autunno e l’inverno appena entrato. Con la ruota del tempo che scandisce sempre lo stesso cammino. La lucciola, no. Una volta lasciato il corpo di verme lo lascia per sempre per andare più su, sempre più in alto con la sua lucettina in attesa di un unico ritorno: la parusia.

Mi chiedo: è questa la lezione trasmessa dal presepe del vastese Antonio Vassetta che lo stesso Gabriele Rossetti ci invita, in qualche modo, a seguire?

«Mobilitazione totale». Vasto nella Grande Guerra attraverso le carte dell’Archivio Storico Comunale

di Luigi Murolo

 

 

Per la cosiddetta «dottrina Ludendorff» – espressa nel «Programma Hindenburg» del 1916 – , il concetto di mobilitazione totale (che Erich Ludendorff, chiamerà guerra totale [Der totale Krieg] nel suo libro con l’omonimo titolo [1935]), può essere sintetizzato con queste parole: «l’arruolamento di tutto il popolo al servizio dell’economia di guerra»[1]. L’obiettivo che viene raggiunto è l’immediata coincidenza di sfera militare e civile. Con un effetto devastante: che hostilis, in tale contesto, non è solo la manifestazione estrema della politica; vale a dire, l’esercito in guerra. Ma la societas nel suo complesso, con tutto il suo apparato di lavoro). Un importante pensatore di quegli anni – Ernst Jünger – definisce la mobilitazione totale con le seguenti parole: «la difesa armata della nazione non è più dovere e prerogativa del soldato di professione ma diventa un compito per tutti i cittadini idonei alle armi. […] L’immagine stessa della guerra come azione armata finisce per sfociare in quella, ben più ampia, di un gigantesco processo lavorativo. Accanto agli eserciti che si scontrano sui campi di battaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell’industria militare: l’esercito del lavoro in assoluto»[2]. Da questo punto di vista, la cosiddetta «dittatura militare» tedesca (il binomio Hindenburg-Ludendorff che si afferma nell’ultimo biennio di impero di Guglielmo II) trasforma lo stesso concetto di nazione. Come avrebbe acutamente osservato Ludendorff nel libro del 1935, lo stato (e con esso la nazione) diventa un unico collettivo, con un’unica volontà in grado di concentrare tutte le risorse in un unico obiettivo. Con quale esito? Con il raggiungimento di un risultato periculosum maxime che vede l’organizzazione della fabbrica fordista diventare fabbrica di massa (la stessa in cui la parcellizzazione tayloristica scandisce sul nastro trasportatore i ritmi totali del lavoro. E qui andrebbe riletta la contemporanea lezione gramsciana di Americanismo e fordismo[3] per capire le trasformazioni economico-sociali che, nella produzione, aprono alla dimensione sociale del lavoro). Che la stessa fabbrica di massa chiamata “guerra” altro non configura che un incommensurabile nastro trasportatore dove tutte le parti sociali risultano al servizio della macchina che scorre incessantemente per la produzione di un’unica grande opera: l’annientamento del nemico (nella dottrina di Ludendorff sulla guerra totale esistono solo due opzioni: la vittoria totale o la sconfitta totale). Quasi non bastasse, Jünger viene a aggiungere che gli apparati finanziari, industriali, militari non costituiscono il meccanismo decisivo della mobilitazione. Essi funzionano a una sola condizione. Che vi sia un unico fondamento a accordarli per il semplice fatto che «il vero presupposto si trova, come il presupposto di ogni tecnica, a un livello più profondo, che possiamo chiamare disponibilità alla mobilitazione»[4].

Ecco allora il punto. Ciò che conta nell’ambito del lavoratore-soldato (che è poi il lavoratore), è la «disponibilità alla mobilitazione». Essa viene costruita sul terreno della psicologia delle masse. Ad esempio, il celeberrimo manifesto del 1914 per il reclutamento dei soldati nell’esercito inglese realizzato da Alfred Leete (con il generale Horatio Herbert Kitchener che, puntando l’indice accusatore verso il lettore dichiara: Britons. Lord Kitchner wants you. Join your country’s army! God Save the King[5]) ottiene un risultato straordinario di arruolamenti volontari. Lo stesso esito che sarebbe toccato negli States tre anni più tardi (1917) con l’incredibile Zio Sam disegnato da James Montgomery Flagg (e che cosa dire, dei miliardi di lire ottenuti con il poster di Achille Mauzan per la sottoscrizione al Credito Italiano di guerra!). In altre parole, più che la pubblicità sensu stricto, per la mobilitazione totale conta la sollecitazione alla disponibilità di massa nell’accogliere l’ordine.

In buona sostanza, la mostra documentaria che qui si presenta intende sottolineare il carattere di disponibilità alla mobilitazione che si può cogliere in una città come Vasto durante la guerra 1915-18. Il percorso espositivo è costruito sulle carte conservate nell’Archivio Storico Comunale e organizzate intorno alle stesse. Per tale motivo, rinvii e riferimenti a questioni più generali hanno trovato le proprie ragioni nella documentazione ancora presente in faldoni ben classificati e ordinati.

Qualche riferimento specifico non guasta. Ad esempio, il manifesto commemorativo dell’ impiccagione di Cesare Battisti affisso dal Comune di Vasto immediatamente a ridosso dell’avvenuta esecuzione capitale. I riferimenti testuali testimoniano la contemporanea trasformazione in chiave nazionalistica del pensiero politico battistiano. Il pannello seguente, al contrario, riconduce l’opera del grande Trentino nell’alveo della sua vera attività di autonomista: l’austromarxismo socialista con forti accenti mazziniani. L’ultimo poster, inoltre, esibisce la sequenza fotografica della condanna a morte eseguita dagli austro-ungarici sulla base di una sentenza improntata al nazionalismo più acceso. La simmetria e la reciprocità nell’interpretazione nazionalistica del pensiero e dell’azione di Cesare Battisti – eroe per l’uno, traditore per l’altro – hanno un unico scopo: contribuire alla fomentazione dell’odio tra le parti agonistiche. La volontà di cancellare la reale portata della grande riflessione autonomista battistiana diventa centrale per alimentare la disponibilità alla mobilitazione totale negli stati in conflitto.

Altro elemento è dato dall’interesse in città per la storia degli Usa nel corso del 1918. Le carte vastesi d’archivio, ad esempio, testimoniano con un manifesto ad hoc l’attenzione per la ricorrenza dell’ Independence day (4 luglio 1918). Non è lontano, da tale celebrazione, il riferimento implicito alla lotta risorgimentale italiana per sottolineare l’ “affratellamento” tra i due stati verso la comune guerra di liberazione dai propri oppressori. Il tutto si incrocia con il superamento wilsoniano della cosiddetta dottrina Monroe (la non ingerenza americana nelle questioni europee) che aveva rovesciato le sorti della guerra nel vecchio continente a favore dell’Intesa, malgrado la disfatta italiana di Caporetto. Da questo punto di vista risulta chiaro nel manifesto il riferimento alla battaglia del Montello quando l’VIII armata italiana comandata dal gen. Giuseppe Pennella, il 15 giugno 1918, riesce a contenere lo sfondamento austriaco e a respingere il nemico di là dal Piave. In un poster, tra l’altro, ci si sofferma su una curiosità letteraria. Addio alle armi (Farewell to arms, 1929) è il celebre romanzo di Ernest Hemingway che descrive la prima guerra mondiale – in particolare, la disfatta di Caporetto – dal punto di vista di un americano arruolatosi come volontario nell’esercito italiano. Il testo viene ricordato in questa sede perché uno dei personaggi del novel è il cappellano padre Guidi, di Capracotta, il centro altomontano oggi in Molise, allora in Abruzzo. Nel romanzo – tradotto da Fernanda Pivano, pubblicato solo nel 1948 perché vietato dal Fascismo – vi sono molti riferimenti a Capracotta e all’Abruzzo. Non vi sono dubbi. La grande letteratura americana tiene conto del rapporto tra i personaggi e i luoghi. Lo stesso Abruzzo diventa protagonista dello straordinario mosaico relazionale emerso nella Grande Guerra. Di quest’opera esistono tre versioni cinematografiche: 1932, 1957, 1996. I poster che qui si riportano sono relativi alla seconda diretta da Charles Vidor con Alberto Sordi nel ruolo di padre Guidi. È interessante notare come nel film, per ragioni di sceneggiatura, Sordi si riferisca a Pescara, non a Capracotta. In ogni caso, la pratica di mobilitazione totale nel segmento della propaganda trova la sua traccia più significativa nell’affiche del 30 settembre 1918 allorché il comune di Vasto, su informativa del gen. Giuseppe Ciancio, comandante il XIII Corpo d’Armata di stanza a Ancona e dell’Official committee on Public Information of the United States, organizza in città una conferenza di Arthur Benington, divulgatore della politica americana nella guerra europea. In nuce sono già enunciati i temi che avrebbero dato vita alla cosiddetta questione della «vittoria mutilata», laddove, nel testo, sono già presenti le indicazioni di alcuni di quei quattordici punti espressi dal presidente Woodrow Wilson al Senato degli Stati Uniti l’8 gennaio 1918 circa le prospettive del nuovo ordine mondiale susseguenti al conflitto allora in corso. Il punto più rilevante del manifesto è in quel passaggio in cui si legge: «Il principio di nazionalità nella formula moderna della sovranità, va inteso nel senso di curare che le aspirazioni di tutti i popoli oppressi raggiungessero i termini segnati dalla natura e dalla storia. Perché nel concetto di giustizia internazionale, sta l’esistenza e l’essenza della patria».

Come si può notare, le carte dell’Archivio Storico Comunale di Vasto dispongono la narrazione del percorso espositivo nel rapporto dettaglio/generale. Certo, Gustave Flaubert, con la sua celebre proposizione «Le bon Dieu est dans le détail», sottolinea l’importanza del particolare nella costruzione del generale. Del resto, attenendosi a questo semplice (ma fondamentale) precetto si ha la possibilità di leggere in opposizione dialettica ciò che può essere raccontato nella contemporaneità di un unico spazio. Da questo punto di vista si possono cogliere la costruzione del Faro di Punta Penna (1912) nel contesto della geopolitica prebellica italiana per la supremazia nell’Adriatico; la formazione del plotone di riservisti nella strategia difensiva della costa orientale; le comunicazioni di caduti, dispersi, prigionieri (in quest’ ultimo caso, la relazione dei vastesi con i campi di internamento austro-ungarici); bollettini di guerra e telegrammi che rendono avvertita e presente l’invisibilità del comando; l’estensione della documentazione dalla carta d’archivio all’archeologia della guerra (qui l’attenzione ai superstiti tralicci vastesi per filo spinato in località Colle Martino) ecc. Ma è soprattutto la comparsa per la prima volta nella storia della difesa contraerea lo snodo della mobilitazione totale. Che lo si voglia o meno è ancora una volta Ernst Jünger a chiarire il senso nuovo e, fino a allora, mai visto di quella forma assoluta della guerra: «Come ogni vita produce il germe della propria morte, così la comparsa delle grandi masse racchiude in sé una democrazia della morte. L’età del colpo mirato ormai è alle nostre spalle. Il comandante di una squadriglia aerea che a notte fonda impartisce l’ordine di bombardare non fa più alcuna distinzione tra militari e civili, e la nuvola di gas letale passa come un’ombra su ogni forma di vita. Ma la possibilità di siffatte minacce non presuppone una mobilitazione parziale o generale: presuppone una Mobilitazione Totale, che si estende anche al bambino nella culla. Esso è minacciato come tutti gli altri, se non addirittura di più»[6]. In tal senso, un poster della mostra esibisce gli avvisi del provveditorato provinciale agli studi per la difesa delle scuole dal bombardamento aereo senza dimenticare i tratti dell’educazione infantile contro il nemico.

L’obiettivo del percorso espositivo sta in ciò: ricostruire sulla base delle carte comunali il modo in cui la città partecipa alla mobilitazione totale; in cui essa la vive. Fissarne, magari, alcuni elementi e, nello stesso tempo, tracciare il quadro di un certo numero di figure vastesi protagoniste, a vario titolo, del conflitto – per fare qualche nome: Camillo Manzitti, direttore della Ansaldo armamenti (con sette inchieste parlamentari nei suoi confronti) o Ettore Janni, deputato di Vasto e futuro direttore del «Corriere della Sera», con le sue polemiche contro la «monumentalizzazione» del caduto –. In altre parole, si tratta di non prospettare più un metaracconto sulla guerra, ma un mosaico dove i frammenti che lo costituiscono siano in grado di rispondere a una domanda: come si è articolata in città la mobilitazione totale? La mostra in qualche modo cerca di rispondere a tale interrogativo.

 

 

[1] La cit. nella nota del traduttore alla versione italiana di Die Mobile Mobilmachung (La mobilitazione totale, 1930) di Ernst Jünger. Il testo in questione è disponibile in E. Jünger, Foglie e pietre, Milano, Adelphi, 1997, pp. 113-138. La cit. a p. 119.

[2] Ibid., p. 118.

[3] Cfr. A. Gramsci, Americanismo e fordismo, Torino, Einaudi, 1978.

[4] E. Jünger, op. cit., p. 122.

[5] (Trad.: «Britannici. Lord Kitchener vuole te. Arruolatevi nell’esercito del vostro paese! Dio salvi il Re»).

[6] E. Jünger, op. cit., pp.120-121.

 

 

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La dichiarazione di guerra comunicata alla Città dall’on. Francesco Ciccarone

 

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La cessazione delle operazioni di guerra attraverso il bollettino 1276 a firma Diaz comunicato dall’Agenzia Stefani. Il manifesto è pubblicato da una tipografia di Vasto lo stesso giorno: 11 novembre 2018. Con precisione: un secolo fa

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I segni storici di antropologia culturale disseminati in angoli più o meno riposti della città consentono di aprire percorsi di indagine sovente impensabili (la cosiddetta serendipità, che implica la scoperta di tracce o intuizioni fatte per puro caso). Le stesse tracce dei superstiti monumenti funerari nelle strade del centro antico del Vasto – a volte visibilissimi, ma su cui non viene posta la necessaria attenzione – costituiscono, nel giorno della Commemorazione dei defunti, un momento di approfondimento conoscitivo sulla storia cittadina. Va detto, inoltre, che non sarà possibile discutere sulle testimonianze funerarie conservate nel Gabinetto Archeologico Comunale in quanto le sale espositive ad hoc sono chiuse per verifica strutturale della parte est del Palazzo. Da questo punto di vista, ci si limiterà a un breve commento delle due sculture sepolcrali di primo XV secolo custodite all’ingresso del Museo.

La visita, guidata dal prof. Luigi Murolo, si concluderà con una conversazione dello stesso docente sul rapporto inscindibile tra giorno dei morti (2 novembre) – Epifania (6 gennaio) e il presepe popolare napoletano, storicamente diffuso negli ambienti familiari del Mezzogiorno d’Italia.

Diversamente dal presepe di Festa (elaborato nella corte borbonica), quello popolare restituisce, sul versante antropologico, una grande allegoria sul transito delle anime (ciamarèllǝ, in dialetto) dal camposanto al mondo dei vivi e del conseguente ritorno delle stesse nel luogo di quiete.

L’inizio della conversazione è previsto per le ore 18,00 nella chiesa di S. Filomena.

«IN PARTIBUS DALMATIAE». SCAMBI COMMERCIALI TRA COSTA VASTESE E COSTA DALMATA TRA I SECC. XVI E XVII.

di Luigi Murolo

 

Propongo in questa sede la sintesi della presentazione dell’omonima mostra documentaria da me allestita nel centro insediativo schiavone di Montemitro (11 agosto 2018) alla presenza della dr.ssa Branka Bezić Filipović rappresentante della Hrvatska Matica Iseljenika di Spalato.

 

 

 

D’agosto, nel 1504. Dopo appena otto mesi dalla battaglia del Garigliano – scontro che determina la sconfitta definitiva dei francesi in tutto l’ex-regno di Napoli –, Gonzalo Fernández de Córdoba y Aguilar risulta già insediato come Viceré spagnolo della nuova entità geopolitica mediterranea dipendente da Madrid. A partire dalla pace difficoltosamente raggiunta dopo quattro anni di sanguinosissima guerra,  el Gran Capitàn riceve nell’antica Capitale aragonese un diplomatico della piccola Repubblica di Ragusa,  latore di un messaggio del Consiglio dei Pregadi che testualmente recita:

 

Sa molto bene la Ill.ma Signoria Vostra como noi siamo vicini a quesso Regno, tra el qual et la città nostra non media alguna cosa salvo questo brazo de mare Adriatico, ita che de necessita l’è continua pratica tra li regnicoli et li mercadanti nostri, per modo che hic inde alcuna parte e l’altra ne seguita et resulta molte et grande commodità.

 

L’indicazione di Regno, e non di Viceregno, è certamente significativa del modo in cui la res publica di San Biagio intende regolarizzare i rapporti tra le due sponde. O Monarca o Governatore poco importa: ciò che conta è riconoscere alla nuova realtà politico-territoriale la conservazione formale della precedente sovranità. In buona sostanza, i ragusei si mostrano tessitori di relazioni diplomatiche accorte. Le stesse – va detto – che avrebbero consentito loro di rimanere indipendenti dall’impero ottomano, malgrado la pesante sconfitta degli ungaro-croati in quella battaglia di Mohács (1526) che avrebbe deciso la conquista (balcanizzazione) di quasi tutta la Slavonia da parte dell’esercito di Solimano il Magnifico (rimarrà escluso il solo regno di Croazia da allora integrato nell’impero asburgico fino al 1918). Una cosa è certa. Nel periodo compreso tra il 1504 e il 1526, i Pregadi costituiscono delle rappresentanze (consolati) nei centri maggiori dell’Abruzzo Citeriore mediante la pratica di proxenìa (vale a dire, delegare un abitante del luogo quale agente unico a tutela, in città, degli interessi di negozi e commerci dei viaggiatori di quegli stati per cui svolge tale funzione). Il consolato raguseo di Vasto viene istituito il 14 luglio 1523 con la designazione del primo pròsseno (o console) nella persona di Cola Monaco, personaggio fino a oggi sfuggito alle varie storie della città.

In una prospettiva di tal genere, tanto i ragusei quanto i dalmati (spalatini, zaratini ecc.) si trovano a costituire i soggetti attivi delle transizioni economiche est/ovest nel «brazo di mare» interadriatico. I profughi della grande area balcanizzata della Slavonia (vale a dire, quella assoggettata dagli ottomani) si presentano, al contrario, come immigrati – dunque, passivi nei confronti degli attori di industrie e commerci –. A differenza dei primi – cui Alfonso il Magnanimo, il 15 giugno 1445, concede il libero commercio in tutto il Regno e la lbera e franca dimora nei centri della costa abruzzese –, i secondi – indirizzati a lavori bracciantili – sono destinati o al ripopolamento di paesi in fase di abbandono (Montemitro, S. Felice, Mafalda, S.Pietro Linari [Vasto] ecc.) o a insediamenti neofondativi in funzione agricola (Cupello, Villalfonsina ecc.). Traccia iconografica di tale migrazione è visibile in un particolare del dipinto su tavola (1510) del pittore abruzzese Serafino Gatti oggi al Metropolitan Museum of Art di New York. Sicché, rispetto alle fonti storiche disponibili, torna utile sottolineare come alla scarsa documentazione sugli schiavoni in generale (cui comunque è accordato il diritto d’asilo) venga a corrispondere una più articolata informazione su dalmati e ragusei.

Va da sé che, da tale punto vista, la storia materiale delle città in età medievale e moderna diventa conoscibile attraverso gli atti notarili (rimangono fondamentali per l’Abruzzo le insuperate ricerche di Corrado Marciani). I protocolli – che ne costituiscono le copie d’ufficio – testimoniano la vita quotidiana degli uomini negli aspetti più diversificati. Doti, testamenti, vendite, acquisti, prestiti, riscatti, contratti, industrie conserviere e alimentari, produzioni e trasformazioni agricole, commerci, salari, noli e trasporti marittimi, costruzioni di edifici pubblici e privati, accomodi, restauri, lapicidi, scalpellini, marramieri, bottai, ebanisti, conciatori, ceramisti, vetrai, tavernari, vinattieri ecc. possono passare sotto gli occhi interessati degli studiosi mentre compulsano tutta quella sterminata mole di manoscritti disposti lungo le centinaia di metri lineari delle scaffalature d’archivio.

Dal sec. XVI in poi, i paesi dell’Abruzzo meridionale hanno la possibilità di raccontare infinite storie di individui e di comunità. Ad esempio, le stesse relazioni storiche tra le due sponde adriatiche, tra Vasto e i suoi caricatoi (scali marittimi di esclusivo carico e scarico merci) con le città croate costituiscono un capitolo tutto da indagare. Ecco allora che, in un paese di origine schiavone come Montemitro, diventa utile proporre in riproduzione una selezione di documenti di due notai locali del Cinquecento – Gio. Battista Robio e Berto de Bertolinis – da cui è possibile ricavare almeno una vaga idea sulla complessa mole di scambi che, in quell’età, ha riguardato le attività dei vastesi in partibus Dalmatiae (“nelle terre della Dalmazia”). Gli atti dei due notai vanno dal 25 settembre 1550 all’11 luglio 1555 per il primo (cinque documenti tutti anteriori alla distruzione ottomana di Vasto del 1566); per il secondo, al contrario, dal 16 settembre 1593 al 25 febbraio 1599 (undici documenti nella fase della città in fattiva ricostruzione, soprattutto dopo la vittoria della Lega Santa nella battaglia di Lepanto del 1571). Nella mostra che qui si presenta, l’unico documento fuori periodo di un ventennio è quello redatto da notar Alessandro Fantini il 28 ottobre 1621. Lo si riporta per l’interesse che riveste nello spiegare la gestione degli approdi marittimi (nel caso specifico, il caricatoio della Meta. Gli altri due risultano essere Casarza e Spiaggia) a partire dal rapporto contrattuale tra l’amministrazione dell’universitas (nella persona del mastrogiurato pro-tempore) e il mastro di scalo.

Grippi, marciliane, brigantini, feluche, marani, sciabecchi ecc. transitavano regolarmente nelle tre prode vastesi. Merci in particolare – e anche persone – attraversavano senza problemi le oltre 110 miglia marine del «brazo di mare» (una distanza più rapidamente percorribile rispetto a quella terrestre tra Vasto e Napoli). Tra arrivi e partenze un gran numero di vastasi (portatori di pesi) lavorava con lena per imbarcare e sbarcare uomini e cose. Di quegli scambi transfrontalieri Abruzzo meridionale/Croazia rimangono oggi solo memorie di carta. Nessun traghetto percorre più quelle antiche e consolidate rotte. Nessun viaggiatore più dall’Abruzzo – se non soci di circoli nautici – può dirigersi verso l’altra sponda. Cinque anni fa (2013) avevo proposto la ripresa l’eredità culturale delle antiche transizioni adriatiche attraverso il gemellaggio tra il Liceo Scientifico di Vasto e il Primo Liceo di Spalato. Attività iniziata nel migliore dei modi, poi interrotta. Le ragioni? Valle a capire!

La macroregione adriatica istituita dal 2014 dovrebbe costruire relazioni culturali e istituzionali tra le città dell’antico golfo di Venezia. Difficile capire in quale date le vele potranno essere considerate sciolte e avviare questa navigazione nella cultura interadriatica.

QUEL MAGNIFICO TRIS: VALORIZZAZIONE, RESILIENZA, SOSTENIBILITA’

di Luigi Murolo

 

«Come valorizzare la nostra scogliera?» è la domanda che ha posto recentemente un amico. Io rispondo nell’unico modo che conosco: proteggendola. Evitando vie, viuzze, strade, stradine, chioschi, baracche ecc. Chi vuole cercare qualcosa si impegna a trovarla da sola. Al più possono essere ipotizzati piccoli sentieri sterrati (soprattutto «manutenuti)» percorribili a piedi (la qual cosa implica l’esclusione di ogni tipo di veicolo). Donne e uomini che camminano o animali. Nient’altro che la passeggiata riflessiva e curiosa. La lentezza contro la velocità. Cui va aggiunta una richiesta: la cancellazione dall’uso della parola “valorizzazione”.

Ch’io sappia questo termine designa il «conferimento di valore» a qualcosa. Vale a dire, capacità di produrre denaro; al contrario del bene naturale che vale di per sé. Che non è un mezzo per favorire la circolazione di un equivalente generale dello scambio cui il mondo è devoto. Non solo perché la presenza antropica è distruttiva e vede l’inciviltà dell’uomo-massa produrre pattume ineliminabile, devastazione, rottura con l’ambiente. Ma perché il denaro alimenta se stesso attraverso lo sfruttamento selvaggio di terra e mare. In nome del denaro e di ciò che viene chiamato «sviluppo», il denaro spezza il senso del paesaggio (da intendere per sé e non solo attraverso la categoria empirista della percezione). Grazie alla gioiosa pratica della «valorizzazione» sono state compiute le più grandi scelleratezze sul territorio.

Evviva “ombrina”. Evviva le trivellazioni. Evviva la pipeline del gas Azerbaigian-Puglia. Ora siamo tutti più ricchi e valorizzati. Certamente. Ricchi – anzi, sfondati – di povertà economica e morale! Meno male che oggi c’è la Zes che impegnerà 1702 ha. di verde abruzzese con 500 ha. di verde molisano. Troveremo tanta di quella ricchezza che l’area industriale di Punta Penna sarà molto ma molto più vuota di quanto lo è stata dal 1964 a oggi. Un successo straordinario della valorizzazione che vede tantissimi soldi nelle tasche di tutti, tutti, tutti. Nessuno escluso. Peccato, però, che abbiano la grazia dell’invisibilità!

E poi c’è il Parco della costa teatina, la cui gestazione ventennale (dal 1997) rende l’attesa più spasmodica (e qui devo chiedere venia perché la lentezza è stata davvero veloce). Avremmo intanto un fronte costiero di 50 km di pista ciclabile che vedrà uno stormo di eroici pedalatori percorrere un sentiero che farà impallidire il pellegrinaggio di Santiago di Compostela.

Qualche conto sulla perimetrazione dobbiamo pur farlo! Vediamo un po’ che cosa dovrebbe accadere nei dieci comuni con la ripartizione dei 10.528 ha totali previsti. Ortona, 2764,68 ha.; San Vito Chietino, 887,45 ha.; Rocca S. Giovanni, 1084,82 ha.; Fossacesia, 783,79 ha.; Torino di Sangro, 1694,32 ha.; Vasto, 1598,63 ha.; San Salvo, 106,86 ha.; e, solo marginalmente, Pollutri, 170,55 ha.; Villalfonsina, con 126,96 ha.. Con l’aggiunta dei 1702 ha. della Zes raggiungeremmo 12230 ha. Sicché, viene voglia di dire a se stessi: possono coesistere queste due modalità di approccio al territorio? È sufficiente ricorrere al concetto ecologico di resilienza per sostenere la capacità di un ecosistema di resistere a una perturbazione ambientale senza per questo alterare la propria la propria struttura di base. Il che vuol dire: un parco può essere tranquillamente resiliente nei confronti dell’industria se questa è sei volte inferiore al primo. E poi, non è vero che occorre parlare di sviluppo secondo quanto previsto dal Rapporto Brutland nella Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo del 1987? Vale a dire: «Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali».

Già! Come dovremmo parlare di sviluppo sostenibile in un’area industriale come quella di Punta Penna di cui, a partire dal 1964, si favoleggiava una straordinaria valorizzazione? Ma come non c’è forse stato un arricchimento generale talmente potente di cui nessuno si è accorto? E la gigantesca forza industriale di cui è stata apportatrice? E i tanti posti di lavoro prodotti? Talmente tanti che mai nessuno è riuscito a contarli. Non ci sono dubbi. Guardando all’indietro possiamo dire: valeva la pena sacrificare alla valorizzazione un monumento naturale come lo “scoglio spaccato” fatto esplodere per dare posto al cemento. E la bonifica dei “Laghetti” di Vignola avvenuta negli anni Venti del Novecento per consentire la valorizzazione abitativa di un’area praticamente disabitata. Che bello! In luogo di “pandiere” di acqua salmastra troviamo oggi, in quella località, una costa finemente eutrofizzata. E poi, grazie al Parco – la cui gestazione risale al 1997 con una gravidanza che dura da ventuno anni (una lentezza così veloce da partorire immobilità) – una bicistrada consentirà la valorizzazione di ambienti che fino a oggi si sono autodifesi – c’est a dire, resilienti alla massa –. Fino al marzo 2005, la ferrovia aveva assolta la funzione di collegamento ordinato tra città costiere garantendo, tra l’altro la manutenzione del percorso dalle frane e dall’assalto di consumatori usa-e-getta. E al posto di garantire la visitabilità – ma non l’uso balneare – di Punta d’Erce, una nuova marina a spiaggia libera si è andata disegnando in finibus Sinelli.

Tutto è sostenibile. Anzi «sublime», se vale ciò che il preromantico Edmund Burke traduceva con «delightful horror»; in definitiva, «orrore che affascina». Una visita al Premio Vasto di quest’anno incentrato sul Paesaggio (su cui mi riprometto di tornare) restituisce a quel concetto il valore etimologico di ciò che «giunge fin sotto la soglia più alta». Al contrario, ci stiamo inoltrando verso ciò che «giunge fin sotto la soglia più bassa». Cioè, semplicemente l’orrendo in quanto tale. Insomma, tutto è sostenibile. Figuratevi, si riesce perfino a sostenere il potenziamento dell’Ospedale di Vasto nel momento in cui lo si smantella pezzo per pezzo. Così, anche l’ospedale di Vasto è resiliente. Resiliente come lo è un parco nei confronti dell’industria. Tutto è sostenibile e resiliente. Tutto. Salvo una cosa: le sciocchezze!

DIALETTO E «COMICO DI PAROLA»

di Luigi Murolo

Partecipe alla première de La fattìure, la commedia dialettale di tipo farsesco scritta da Paolo De Guglielmo (1908-1981) e allestita dal gruppo teatrale La Cungarèlle (rappresentata nel cortile di Palazzo d’Avalos il 24 luglio 2018), ho subito pensato alla possibilità di una recensione non sulla serata, ma sulla funzione del dialetto nel testo in questione. Del resto, se è vero che nel progetto del costituendo Museo di comunità centrato sulla voce emerso nel Corso sulla fonetica e sulla scrittura del dialetto di Vasto, le rappresentazioni teatrali sono considerate essenziali per la documentazione linguistico-antropologica della lénga huaštaréulǝ, credo che sia importante avviare un tentativo di interpretazione della pièce sul versante stesso della comunicazione orale. Consegno queste brevi considerazioni alle amiche e agli amici del Corso o a eventuali altri interlocutori che intendono partecipare a un’auspicabile discussione.

 

 

Come accade in fonematica, dove i fonemi si definiscono in opposizione tra di essi, così nella commedia dialettale la lingua vernacola definisce la sua funzione comunicativa in opposizione all’italiano. Parlo ovviamente dell’idioma locale non certo di quello della koinè. In tale caso, le funzioni sono similari, non divergenti. Va osservato, infatti, che in un ambiente locutorio dialettofono la lingua nazionale viene a profilare un momento di rottura profondo con la scena in cui agisce. Deve per forza connotare qualcosa di totalmente altro rispetto alla Zwittersprache – così il dialettologo tedesco Gustav Rolin definisce la lénga huaštaréulǝ nel 1908: vale a dire, «lingua ibrida» –. Da questo punto di vista, nella commedia del De Guglielmo, l’italiano parlato dal «professore» si trova a delineare una dramatis persona del tutto esterna al luogo. Talmente estranea all’ambiente, che di questo può diventare addirittura figura protettrice, al punto da assumere su di sé i «peccati» (ingerendo volontariamente la pozione «magica» destinata a altri) impliciti nel tentato e risibile «affatturamento» richiesto alla fattucchiera dalla madre impicciona e ruffiana. In buona sostanza, l’onniscienza del «professore» è perfino in grado di prevedere gli eventi (coincide in qualche modo con il narratore onnisciente e eterodiegetico del romanzo). Il suo eloquio piccolo borghese, anche se lo oppone al sermo vulgaris della famiglia che ha «in custodia», non lo differenzia dall’aurea mediocritas linguistica di un buon impiegato di concetto degli anni Cinquanta del Novecento. Nei fatti, un «angelo custode» dalle qualità molto realistiche. E poi, una cosa va ricordata. Che proprio per la ragione di voler scrivere un testo teatrale centrato sull’intrattenimento, Paolo De Guglielmo risulta ben consapevole del fatto che la farsa – perché è ciò che, in qualche modo, ha voluto proporre – è «una forma estrema di commedia che suscita il riso a scapito della logica» (la definizione è di Eric Bentley).

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Paolo De Guglielmo (Vasto, 1908-1981)

Va da sé che tra lingua «alta» del misterioso sapiente e lingua «bassa» della comunità il De Guglielmo pone un’opposizione di tipo verticale. Sul versante antropologico, insomma, la dialettica orizzontale e paritaria della linguistica si trasforma nel suo rovescio: vale a dire, in primato della parlata «culta» su quella volgare. In tale prospettiva, l’uso in funzione «alta» del registro basso-mimetico popolare produce l’effetto comico. Che si realizza nell’accettazione della realtà quotidiana e nel tentativo, sempre goffo e fallimentare, di raggiungere uno status sociale diverso dal proprio. In questo senso non è la gag (tipica del linguaggio corporeo espresso dalla slapstick comedy) a caratterizzare il personaggio ma l’uso della lingua. Ci si trova di fonte a ciò che già, agli inizi del Novecento, Henri Bergson nel suo celeberrimo saggio sul riso chiamava «comico di parola». Quando, cioè, è il linguaggio stesso a diventare comico perché chi lo utilizza, a differenza della platea, non ne conosce la regolarità. L’attore brillante deve saper mostrare al pubblico di essere convinto delle grossolanità che dice. E solo quando si misura con lo spettatore che si presuppone essere connoisseur della regola, il convincimento espresso dall’artista diventa sollecitatore di riso nell’uditore. Proprio perché ispirato dalla comicità radiofonica (che vive nell’ascolto della parola) – e Paolo De Guglielmo ne sottende l’importanza a partire dalle battute iniziali della sua pièce scritta nel 1954 –, la voce costituisce un punto di riferimento per l’autore della Fattìurǝ. E sempre nell’ambito della nozione di «comico della parola» occorre prospettare la distinzione tra la comicità che il linguaggio esprime e quella che il linguaggio crea. Va in ogni caso ricordato che la comicità del linguaggio altro non costituisce che la rappresentazione fonica degli effetti prodotti dal gesto e dalla situazione dimostrando (ancora una volta secondo la prospettiva indicata dal filosofo francese) che «il comico si sviluppa nell’ambito di una coscienza comune». Per cui tra espressività e creazione si può dire che la prima risulta, in qualche modo, traducibile in un’altra lingua (salvo perdere molte delle sue particolarità), la seconda, no.

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Lu ziu spiccicatu!, versione in siciliano di Giovanni Grasso jr.
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Crešte gna váite accuscì pruváite, versione in napoletano di E. Guerrera

Per quanto mi è dato di sapere, la storia della commedia dialettale vastese presenta due versioni in altro idioma, entrambi gli originali di Luigi Anelli di cui si conservano gli autografi trasposti in Archivio Comunale di Vasto: Crešte gna váite accuscì pruváite (resa in napoletano da E. Guerrera e rappresentata al Teatro Comunale Rossetti di Vasto il 15 giugno 1899 con il titolo ‘O cielo comme vede accussì pruvvede!!) e Lu zije spiccicate! (nella traduzione in siciliano di Giovani Grasso jr. dal titolo Lu ziu spiccicatu! con data 3 marzo 1923 rappresentata il 20 novembre dello stesso anno al “Sannazaro” di Napoli). Non entro nel merito del problema perché non è questo l’argomento in questione. Ma se volessimo tener semplicemente conto della tipologia classificatoria bergsoniana (senza considerare le ragioni che hanno condotto alla traduzione) dovremmo parlare di testi espressivi. Ora, il tentativo da compiere tra le amiche e gli amici del Corso sul dialetto di Vasto e gli interessati – in vista della costituzione del Museo di comunità – è quello di capire se esistono le condizioni di traducibilità della Fattìurǝ (ricordo, tra l’altro, che Paolo De Guglielmo ha reso in vastese Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo con il titolo Lu prussèpiǝ di zi’ ‘Ndòniǝ. Se ne avverte l’eco in quella sorta di algoritmo letterario che è «te piåcǝ lu duàggǝ?» rilettura del più celebre «te piace ‘o presepe?» di eduardiana memoria). E qui si tratta di un testo specifico da correlare con altri. Alla fine di questo breve ragionamento sembra restare un unico interrogativo che potrebbe essere così sintetizzabile: di là dalle rappresentazioni teatrali, il «comico di parola» costituisce davvero una funzione del dialetto?

 

 

La fattìure

di Paolo De Guglielmo

 

Regia

Luciano Marchesani

 

Personaggi e interpreti

 

Riccardo

Fabio Cristina

 

Mariuccia

Orietta D’Aurizio

 

Lucia

Anna Naglieri

 

Giovanni

Antonio Muratore

 

Professore

Nicola Marchesani

 

Ingegnere

Nicola Cicchini

 

Michelino

Luigi Gileno

 

Zia Rosa

Anna Scafetta

 

Righelli

Peppino D’Ercole

 

LA VIA DEGLI ANFITEATRI. UN PONTE CULTURALE TRA VASTO, LARINO, VENAFRO

di Luigi Murolo

 

L’antichità non è un già-dato, un “oggetto” senza vita messo di fronte a dei meri soggetti osservatori. Non è qualcosa posta lì, a portata di mano, che rimane passiva senza suggerire interrogativi. «L’antichità – come sottolineava Novalis – tocca a noi saperla evocare». Dunque, non è il caso di sottrarsi a questo invito. Un esempio semplicissimo. Si vuole capire la struttura dell’anfiteatro di Histonium di cui rimane qualche traccia muraria visibile in un paramento murario urbico di forma ellittica? Basta visitare l’anfiteatro di Larinum (l’attuale Larino) per averne contezza.

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Larino, Anfiteatro
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Larino, Anfiteatro

Si vuole comprendere che cosa fossero gli altomedievali Guarlasi di Vasto di cui parla il memorialista seicentesco Viti? Sarà sufficiente visitare il Verlasce di Venafro, che ne restituisce (anche se attualmente in uno stato di fortissimo degrado) la forma più compiuta (dal punto di vista architettonico, Guarlasi e Verlasce connotano l’edificazione della città post-romana lungo tutta la cavea dell’anfiteatro con il vuoto dell’arena trasformato in platea publica).

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Venafro, Verlasce
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Venafro, Verlasce

Considerata in tale sequenza, piazza Rossetti di Vasto testimonia l’avvenuto mutamento della forma-Guarlasi attraverso la distruzione dei fabbricati lungo l’anello ellittico occidentale dell’anfiteatro e con il mantenimento di quello orientale per utilizzarlo come parte della cinta muraria tardomedievale.

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Vasto, Piazza Rossetti, Ninfeo

Ora, di là dalla monumentalità dei singoli manufatti (significativa la struttura larinate che con i suoi 15000 posti poteva contenere come spettatori il doppio dell’attuale popolazione comunale), ciò che vorrei mettere in evidenza con questo itinerario di tipo didattico è un tema più astratto di storia degli insediamenti. In buona sostanza, ciò che voglio sottolineare, è l’effetto sul territorio che, nel corso del tempo, le comunità locali hanno prodotto nel rapporto con l’antico. Ad esempio, l’abbandono totale dell’anfiteatro di Larino già in fase gotico-bizantina ne ha consentito la salvezza archeologica. Il suo mancato riuso urbano in fasi storiche posteriori con il trasferimento dell’abitato in un sito diverso (non parlo ovviamente della funzione di cava di materiali edilizi) ha garantito – di fatto – la cura della sua facies originaria (I-II sec. d.C). Al contrario, la rioccupazione altomedievale dell’anfiteatro di Venafro ha determinato la realizzazione di una forma incastellata chiamata verlasce (in qualche modo assimilabile al Parlascio di Lucca) che nulla ha avuto da dividere con il successivo insediamento in altura. La traslazione del paese in altro luogo ha consentito, senza praticare l’abbandono, il mantenimento della struttura insediativa altomedievale posta a debita distanza dall’abitato maggiore (di grande efficacia documentaria la foto del 1886 pubblicata sul Web). Da questo punto di vista, piazza Rossetti dimostra il continuo reimpiego della complessa architettura romana fino alla sua dissoluzione. Dapprima anfiteatro, poi verlasce (guarlasi) e infine segmento della cinta muraria urbica. L’attuale rinvenimento – quasi in superficie – di un organismo absidato in opus latericium (il cui recente scavo, per la verità, condotto in modo piuttosto frettoloso non chiarisce se si tratta di un ninfeo [men che meno di chiesa paleocristiana] – certamente non parte dell’anfiteatro) suggerisce un intervento destrutturante sulla cavea già in epoca tardoantica. Ma il viaggio tra gli anfiteatri non termina qui. Il ritrovamento a Larino di una lastra opistografa bronzea (scritta, cioè, sui due lati) con la registrazione di un senatusconsultum del 19 d.C. (recuperato in modo rocambolesco nel 1972) restituisce, a noi contemporanei, il senso antropologico più profondo dei ludi nell’arena: il rigido divieto fatto ai membri delle élites sociali (il rango senatorio-equestre) di esibirsi, dietro compenso, nel teatro o nel circo. Nel caso di pratica, sarebbero stati condannati come infami, perdendo perfino il diritto agli onori della sepoltura. Il risvolto del teatro e dell’anfiteatro era questo. L’ordo equester poteva finanziare la costruzione dell’anfiteatro (com’è documentato a Larino), sedere nella tribuna riservata (podio), ma non essere protagonisti della scena (Che strano. Sulla base del senatusconsultum larinate Messalla non avrebbe mai potuto partecipare alla corsa delle quadrighe contro Ben Hur regalataci dal regista Fred Niblo nel 1925 e da William Wyler nel 1959!). Era qui, proprio alla presenza dei molti, che, la differenza dei ruoli, sanciva come “visibile parlare” la diversità di status nella società stratificata. La ritroviamo perfino nelle onoranze funebri. L’iscrizione CIL IX, 2885 proveniente da Histonium ricorda che all’ordo decurionum era consentita la realizzazione di un monumento equestre; agli urbani (la plebe) quella di un monumento pedestre. Come si può notare, il gioco della morte è ben diverso dal gioco dell’arena. Ne costituisce il rovescio simmetrico. Nel primo caso sono protagonisti i nobili; nel secondo, i plebei. Posta in questi termini, la Via degli anfiteatri può diventare un progetto da discutere con tutti i Licei delle aree interessate. Magari con l’apporto dei progetti europei (sempre che la vecchia Europa sappia resistere alle tempeste da cui è agitata. E qui si aprirebbero percorsi di longlife learning molto interessanti). Ma la domanda che mi pongo è un’altra: di là dall’universo dell’apprendimento e della formazione (che non è cosa di poco conto) c’è (o potrebbe esserci) un mercato di nicchia disposto ad accogliere itinerari culturali di questo tipo? Lo si può costruire all’interno di un’economia slow che possa trovare maggiori spazi di intervento proprio a partire dall’alternativa al modello vacanziero oggi in ribasso? Mi limito a queste brevi considerazioni. Lascio ad associazioni come Italia Nostra il compito di ragionare su tali argomenti in un contesto di formazione permanente (e non di semplici gite con l’ausilio della guida di turno), riprendendo magari in mano la Pro Aulo Cluentio habito di Cicerone che ha il suo centro proprio in Larino e che, nella strategia del dibattito processuale, si trova a affrontare la quaestio de sicariis et veneficiis e che Quintiliano avrebbe utilizzato nella sua Institutio oratoria per la formazione dell’oratore. A dimostrazione di un fatto: che la nuova attenzione per la cultura classica, ricollocando la letteratura antica nei luoghi in cui si è originata, può restituire una percezione più acuta e penetrante di quel genius loci che abbiamo purtroppo dimenticato.

LETTERA A NICOLA D’ADAMO, DIRETTORE DI «NOI VASTESI»

di Luigi Murolo

 

Gentile direttore,

 

ho letto con grande interesse il comunicato stampa da Lei pubblicato sulla presentazione a Roma della grande mostra di Vasto su Filippo Palizzi per il bicentenario della nascita dell’artista. Cose di certo rilevanti per la città. Soprattutto l’aver appreso – con mio sommo stupore – che la cantierazione del sipario del Teatro Rossetti (trafugato sul finire della seconda guerra mondiale) sarebbe stato sollecitato da quel Filippo Palizzi che, bontà sua, carezzava l’idea di dotare il teatro di questo elemento scenico. Davvero singolare tale notizia che ne presupporrebbe la realizzazione dopo il 1874.

C’è da osservare che, dalle deliberazioni del Consiglio Comunale di Vasto, non risulta alcuna committenza ad hoc fino al 1899, anno della morte dell’artista. Non solo. Ma da quanto è dato di sapere non risulta nemmeno un’eventuale donazione di questa struttura mobile posta all’altezza del proscenio. Quasi non bastasse, il 1874 sembra una data molto improbabile se è vero che, stando alle affermazioni di Francesco Ciccarone nei suoi Ricordi: «dolorose circostanze, che si riferivano al nipote G. De Guglielmo, lo tennero [Palizzi, ndr] per molti anni lontano dalla sua città dalla quale egli, con erroneo giudizio, si riteneva offeso e fu solo dopo il 1880 che, chiariti gli equivoci, egli vi fece ritorno e vi si trattenne più giorni». Da questa testimonianza diretta, pare essere escluso ogni possibile «omaggio» nel 1874. Va da sé che sul catalogo troveremo tutte le necessarie informazioni che a noi purtroppo sfuggono. Diverse ovviamente da quelle finora possedute che volevano il sipario dipinto da un Franceschelli di Orsogna (di cui ignoriamo tutto) su bozzetto di De Laurentis tra il 1830 e il 1832 (anno in cui, con delibera decurionale 19 agosto 1832, veniva emanato un regolamento di conservazione e di amministrazione del Teatro). Che dire! La curiosità è tanta. E spero che anche Lei, come me, gentile direttore, sarà felice di leggere i risultati ermeneutici sulla scoperta di questa sconosciutissima progettualità palizziana che, stando ai nuovi critici, avrebbe visto la realizzazione ben quarantadue anni prima che lo stesso artista riuscisse a pensarla!

E poi, caro direttore, sarà ugualmente felice di rivedere, da settembre, la tela di Dopo il diluvio, da noi già vista perché esposta a Vasto nel 1999 (per il centenario della morte di Filippo) nella mostra curata da Giovanna Di Matteo dell’allora Soprintendenza B.A.A.A.S per l’Abruzzo. Magari – aggiungo – con le altre quattro redazioni conosciute (ivi compreso il bozzetto dell’Accademia di Belle Arti di Napoli), ma non presenti in quella circostanza.

Poi un invito. Nella mostra, si esponga il busto di Filippo Palizzi, che fa da usciere al Palazzo di città, opera del grande scultore napoletano Achille D’Orsi (1845-1929) presentata a Vasto da Francesco Paolo Michetti il 15 giugno 1924! È un capolavoro che va custodito gelosamente. Va ricordato che il D’Orsi era succeduto a Palizzi nella presidenza della Galleria dell’Accademia di Napoli (inaugurata però solo nel 1916).

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Achille D’Orsi, Filippo Palizzi (1924), Vasto, Uscio del Palazzo Comunale

Un’ultima considerazione. L’Ecce Agnus Dei della chiesa di San Pietro rappresenta l’ultima grande fatica del maestro Filippo Palizzi. Sarebbe bello vederla a confronto con la pala d’altare del San Teodoro di Amasea a cavallo che il ventiduenne vastese realizza nel 1840 per il protettore di Brindisi conservata nell’omonima cappella della basilica cattedrale. Queste due pale costituiscono l’inizio e la fine di una vita operosa dedicata all’arte. In queste due opere diventa possibile delineare l’evoluzione del genio figurativo di don Filippo, lo stesso che Gabriele D’Annunzio avrebbe colto nello straordinario saggio dedicato alla Gloria di un vecchio.

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Brindisi, Cappella di S. Teodoro, Basilica Cattedrale. La collocazione della Pala d’altare di Filippo Palizzi
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Filippo Palizzi, S. Teodoro di Amasea a cavallo (1840), Brindisi, Basilica Cattedrale                               In basso, a destra, la firma autografa di Palizzi con la data di realizzazione                                         

Tutto qui. Potremmo vedere in questa mostra i due dipinti stendersi la mano a vicenda?

Che cosa ne pensa, caro direttore?